Cultura e spettacolo

I 90 anni di Arrigo Cipriani

Arrigo Cipriani, il patriarca della ristorazione italiana che con i suoi 27 «Harry’s Bar» ha portato l’immagine del «made in Italy» in ogni angolo del pianeta, oggi taglia il traguardo delle 90 primavere. Non sono molti i locali che hanno fatto la storia della ristorazione italiana, che hanno servito ai loro tavoli personaggi come Ernest Hemingway, Peggy Guggenheim, Orson Welles, Arturo Toscanini e sono pochissimi i ristoranti che sono diventati il simbolo del nostro Paese nel mondo. Uno di questi è l’Harry’s Bar di Venezia della famiglia Cipriani. Un mito, il simbolo di Venezia e dell’italian style.

La storia

«Fu mia madre, – racconta Arrigo Cipriani mentre mi sto gustando l’aperitivo con uno dei suoi peccaminosi sandwich di gamberetti accompagnato da una delle sue creazioni, il Bellini, rigorosamente preparato con succo di pesche bianche e Prosecco. – Fu mia madre a trovare un magazzino, cinque metri per nove, con cucinino in una calle sperduta di Venezia, Calle Vallaresso. «A mio padre Giuseppe (nato a Verona nel 1900 e che dopo essere emigrato in Germania, al rientro in Italia aveva lavorato come chef de rang all’Hotel Des Alpes a Madonna di Campiglio e poi come barman all’Hotel Europa di Venezia) piacque perché si trovava alle fine di una calle con affaccio sul Canal Grande, ma senza uscita.
«I clienti – aggiunge – avrebbero dovuto venirci per una loro libera scelta e non cascarci dentro perché ci passavano davanti. Ed è così dal giorno dell’inaugurazione dell’Harry’s Bar, 13 maggio 1931. «Fu mio padre a disegnare i tavoli con tre gambe per evitare che traballassero sul pavimento che come in tutte le case veneziane risente delle onde del mare. «E da allora non è cambiato nulla. Per 30 anni abbiamo servito i clienti al piano terra, poi nel 1960 al primo piano si liberò lo studio di un avvocato e così decidemmo di aprire sopra una sala ristorante.»

Un passo indietro

«Nel giugno del 1950 – racconta sempre Arrigo Cipriani – dopo aver preso un modesto 19 al primo esame di Giurisprudenza, papà mi disse: “Fiòl, xé mejo se ti va’ a servir i clienti”. «E fu così, anche se poi riuscii a laurearmi.
«Gli anni Cinquanta furono indimenticabili per me: quanti cocktail, quanti sandwich, quante insalate, quanti risotti. «Nel 1957, dopo il mio matrimonio con una bellissima farfalla bionda, mio padre, innamorato di Torcello, decise di aprire lì un altro locale: la Locanda Cipriani. «E a me rimase l’Harry’s Bar. Adesso alla soglia dei 90 anni sono un pensionato lavoratore e ho deciso che rimarrò ancora per qualche anno. «Non mi dispiacerebbe diventare il più vecchio oste del mondo (odio la parola chef, io mi definisco un umile bettoliere). «Il capo ora è mio figlio Giuseppe jr che assomiglia a mio padre nella continua ricerca di fare cose nuove. E questo mi fa dire che per 40 anni sono stato il figlio di Giuseppe e ora sono diventato il padre di Giuseppe.» Un padre saggio che dispensa consigli ai figli (tre), ai nipoti (sette) e che si diverte a bacchettare tutti quegli chef che imperversano sulle reti televisive di mezzo mondo dall’alba al tramonto e dal tramonto fino a notte fonda. Sono i profeti dei reality show e della cucina spettacolo. «Basta con questa ubriacatura narcisistica, non ne posso più», tuona Arrigo Cipriani. E aggiunge sprezzante: «Dal momento che sono in tv a tutte le ore del giorno e della notte, mi domando: chi cucina nei loro ristoranti? Il mio consiglio, bonario: tornate ai vostri fornelli.»

Al diavolo le guide

Arrigo Cipriani lancia un anatema anche nei confronti di molte guide e di molti critici enogastronomici. In particolare prende di mira la famosa guida francese dei copertoni (lui chiama così la Michelin) che dopo aver gratificato negli anni Ottanta l’Harry’s Bar di Venezia con il prestigioso riconoscimento delle «due stelle», il padre Giuseppe mandò al diavolo (imitato qualche anno dopo dal divin Gualtiero Marchesi) ribattezzando polemicamente la sala da pranzo del ristorante veneziano «Il ristorante delle 7 stelle». Oggi la famiglia Cipriani vanta un impero di 27 ristoranti, non solo in Italia: New York, Montecarlo, Los Angeles, Istanbul, Città del Messico, Dubai, Londra, Hong Kong, Miami, Ibiza.

Gli ospiti

«Sono orgoglioso – confessa – di aver ospitato all’Harry’s Bar e alla Locanda Cipriani numerosi capi Stato (nel 1961 anche la regina Elisabetta), premi Nobel, scienziati, grandi scrittori (da Hemingway a Truman Capote, da Bacchelli a Piovene, da Dino Buzzati a Goffredo Parise), divi del mondo del cinema e dello spettacolo (Greta Garbo, Humphrey Bogart, Gary Cooper, Orson Welles), miliardari (Barbara Hutton, l’Aga Khan, Peggy Guggenheim, il barone Filippo de Rothschild, solo per citarne alcuni). «Ma soprattutto sono orgoglioso di aver portato in ogni angolo del mondo la cucina italiana e le nostre eccellenze: il pane, la pasta, la mozzarella, il prosciutto, i formaggi, i carciofi, il nostro olio, i nostri vini, il nostro Bellini, i nostri piatti della tradizione: risi e bisi, pasta e fasioi, gli gnocchi, la trippa, il fegato alla veneziana, il baccalà, il carpaccio (invenzione di mio padre) e mille altre specialità. Prodotti e ricette che esaltano un patrimonio di saperi e di sapori unico al mondo.» E aggiunge: «Sono le ricette delle nostre nonne e delle nostre donne di casa. «Sono le ricette della tradizione che hanno fatto la fortuna delle vecchie trattorie di campagna e di città, soprattutto quelle a conduzione familiare, dove il pane profuma di pane, l’arrosto sa di arrosto, le tagliatelle fatte in casa ricordano i sapori di un tempo. «Niente ricette arzigogolate, incomprensibili ai più. Al bando – ad esempio – i piatti adagiati su un letto di petali di rosa o di scarola soffiata e altre simili diavolerie.»
Anche per questo desiderio ancestrale di tornare ai sapori della tradizione senza rinunciare all’innovazione, Arrigo Cipriani ha lanciato una guida-non-guida (senza pagelle e classifiche di merito) che comprende una selezione di locali del Trentino Alto Adige, del Veneto e del Friuli Venezia Giulia (sono oltre 200) che possono fregiarsi dell’appellativo di «Trattoria del Cuore», riconoscimento decretato dai clienti, più che dai critici gastronomici.

Niente stelle

Il titolo della pubblicazione «Non sono quelli delle stelle» riassume le caratteristiche che queste trattorie devono avere. Al primo posto vi è l’accoglienza (il sorriso, il calore di un saluto affettuoso, l’amore nella preparazione delle pietanze) e poi tutto quello che contribuisce a essere felici a tavola: la scelta dei piatti (normali, rotondi, non avveniristici), il bicchiere giusto, i tavoli ben distanziati, le sedie (comode), il piacere della conversazione senza dover alzare la voce per colpa di un fastidioso sottofondo musicale, ma soprattutto un menu essenziale, senza tanti fronzoli, con le proposte del giorno. Proposte che devono rispondere a due soli comandamenti: la leggerezza e la delicatezza. «Con un’avvertenza ai cuochi – sottolinea Cipriani: – nella nostra cucina tutto è già stato inventato.
«L’importante è fare bene le cose che conosciamo, senza aggiungere ingredienti che non fanno parte della tradizione. Semplicità, dunque. E al bando la cucina spettacolo spacciata per novità e creata solo per sbalordire gli allocchi.» E allora evviva le trattorie che – al pari della dieta mediterranea e della pizza napoletana – hanno tutte le carte in regola per entrare nella lista dei beni dichiarati dall’Unesco «Patrimonio dell’Umanità».

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