Da almeno 15 giorni l’argomento principale del quale si discute a Venezia è l’acqua alta del 4 Novembre 1966. Io c’ero e credo posso parlarne con cognizione di causa.
Quel giorno dal punto di vista astronomico si era in periodo di quadratura, cioè di quarto di luna. Durante quel ciclo lunare l’ampiezza della marea è vicina allo zero e la sua estensione positiva dipende solo dalla forza di spinta del vento. Tanto è vero che i Veneziani lo conoscono come il morto di acqua. O “aqua” come si preferisce.
La marea spinta da un violento vento di scirocco cominciò a crescere la sera del 3 Novembre. A causa del “morto di aqua” e del vento di scirocco molto forte, durante la notte, non discese, ma si stabilizzò a un livello di 130 cm. Il giorno dopo il barometro crollò a un livello di cui non ho ricordo e il vento intensificò ancora di più la sua forza. Verso mezzogiorno l’altezza dell’acqua aveva superato i 150 cm per raggiungere verso le 16 l’altezza di 196 cm. Poi alle 17 il vento si calmò e in un paio d’ore l’acqua ritornò dove sarebbe dovuta essere, cioè in mare.
Vorrei raccontare cosa successe a Venezia.
Le calli invase dall’acqua divennero la pista preferita di imbecilli che correvano con i barchini a motore provocando onde che distrussero quasi tutte le vetrine dei negozi del centro. Il riscaldamento degli edifici dipendeva allora in gran parte dal gasolio. Sommersi dall’acqua, dai serbatoi uscì il contenuto che sporcò quasi tutti i muri della città ad un’altezza di 50 cm. Poi, dulcis in fundo, finirono sotto acqua tutti i trasformatori della corrente elettrica dell’Enel e in tutta la città mancò l’energia.
In laguna la diga costruita per difendere il litorale dell’Isola di Pellestrina fu in parte travolta dalla furia del mare. Alcuni preziosi volumi della Libreria Marciana finirono sotto acqua. Gli appartamenti che erano stati ricavati abusivamente a piano terra nei vecchi magazzini furono allagati. Morti, zero. Incalcolabile invece il numero dei decessi tra le pantegane annegate. Nessun edificio in Città ne uscì a rischio di crollo.
La marea coma al solito era salita lentamente con moto verticale. Non fu un’alluvione come quello di Firenze ed altri luoghi. Nelle valli del Comelico ad esempio più di 50 case furono distrutte, 300 persone rimasero senza tetto, e con la prospettiva di passare un secondo inverno in abitazioni di fortuna.
Parlo di un secondo inverno perché, già agli inizi di settembre dell’anno prima, vi era stata una disastrosa alluvione che aveva distrutto 26 case, rese pericolanti 19, lasciato senza tetto 256 persone, con 7 segherie, 2 occhialerie e altre attività artigianali seriamente danneggiate. San Pietro di Cadore aveva cambiato fisionomia: strade, acquedotti, fognature asportati.
Il 4 Novembre del 1966, sulla devastazione dell’anno prima, iniziò a scendere lo scroscio ininterrotto d’acqua dal cielo e nella popolazione dei paesi di fondovalle la paura, ancora a fior di pelle, riesplose angosciante. Il fiume Piave si ingrossava a vista d’occhio ed il rimbombo si diffondeva per tutta la valle. I torrenti che scendono dai pendii a nord ed a sud trasportavano quantità d’acqua mai viste. La settimana prima una nevicata di venti centimetri era scesa fino a quota 1500 metri e con il rialzo della temperatura ed il diluvio continuo la massa d’acqua proveniente dalle montagne non riusciva a defluire. Tranciati i cavi della corrente elettrica, i paesi erano nel buio pesto.
Ci furono decine di vittime tanto che Il Comelico fu tramortito e molta gente dovette riprendere la strada dell’emigrazione. Firenze fu devastata da una fiumana di fango alta anche 5 metri che rovinò per sempre molti tesori della Città. A Venezia il mio Harry’s Bar riaprì la porta il 5 Novembre e servimmo 200 clienti.
Il 6 tornò la luce e per noi la vita riprese normale. Ho scritto questo per dire che i danni a Venezia non furono provocati dall’acqua alta, ma dalla demenza degli uomini. Il grande male fu determinato invece dalla furia mediatica che le due Città, Firenze e Venezia, scatenarono in tutto il mondo.
E così “come salvare Venezia” fu l’imperativo categorico di tutti quelli che indovinavano nelle opere di contenimento dell’acqua il più grande affare- furto pensato nel Ventesimo secolo. E questo è stato il danno maggiore. Durante l’esecuzione delle opere ancora oggi incompiute e inservibili, i soldi per far tacere i contrari, sono stati elargiti a piene mani. Alcuni giorni fa una Contessa veneziana mi ha rimproverato di aver detto in un convegno alla Fenice che il danno più grande dell’acqua granda è stato il Mose che ha drenato seimila milioni dalle nostre tasche in 30 anni. Lo confermo, anche perché sono certo che l’associazione presieduta dalla contessa ha probabilmente ricevuto una mancia. In buona compagnia.
E’ singolare come il ricordo di certi eventi possa essere manipolato dopo anni ad usum delphini.
di Arrigo Cipriani, proprietario dell’Harry’s Bar