
È indiscutibile che l’uomo abbia oltrepassato ampiamente la linea di demarcazione che delimita una vita con e senza tecnologia: nel 2018 la nostra vita quotidiana ne è totalmente permeata. L’avvento dell’intelligenza artificiale (AI) verso la seconda metà degli anni cinquanta, rende concreta la possibilità di costruire una macchina che somigli all’uomo, ossia tradurre in algoritmi le percezioni, le azioni e il comportamento umano. In settant’anni le cose sono cambiate così velocemente da rendere difficile tracciare in modo univoco le tappe fondamentali dello sviluppo tecnologico.
Le nuove generazioni ormai nascono con il “digitale” nel sangue e sono loro che la fanno da padroni. Secondo l’ISTAT nel 2014 una famiglia con un membro minorenne, risulta più attrezzata tecnologicamente e nel quasi 90% dei casi possiede almeno un personal computer e ha accesso ad internet. E si tratta di cifre risalenti a quattro anni fa. Per non parlare della spesa stimata per le tecnologie connesse all’Industria 4.0 che nel 2021 potrebbe superare i 220 miliardi di dollari.
Vivremo in mondo sempre più connesso dove si può iniziare realisticamente a parlare di identità virtuale. Più difficile da esprimere in cifre, è un’altra certezza: che la tecnologia corre più veloce di noi. Per dirlo alla Darwin: la nostra evoluzione in termini di adattamento alla tecnologia è troppo lento rispetto allo sviluppo della stessa. Ecco quindi i primi gap nel sistema. Per fare un esempio tra i tanti possibili, a marzo in Arizona mentre Uber sperimenta l’auto che si guida da sola una donna viene investita.
Questa notizia ci pone irrimediabilmente di fronte a dilemmi etici fondamentali: di chi è la responsabilità? Del guidatore (o passeggero)? Della macchina? Lo sviluppo delle tecnologia latu sensu ci porterà a dover integrare l’attuale sistema giudiziario, a dover modificare il modo in cui intendiamo attualmente il lavoro fortemente modificato dalla robotizzazione e automatizzazione dei processi produttivi, ad affrontare l’impatto che avrà sulle nostre vite e sulla percezione degli stimoli – dalla potenza di un like su Facebook fino alla realtà virtuale o aumentata.
In questo passaggio fondamentale dove si pongono le basi per un futuro imminente, è più forte che mai la questione che concerne l’utilizzo che facciamo della tecnologia. Per orientarci in tutto questo e, soprattutto per tastare il polso del Bel Paese, abbiamo voluto fare qualche domanda a Federico Faggin, Vicentino, classe 1941 che ha avuto un ruolo fondamentale nell’invenzione del mircoprocessore e che è stato testimone diretto dello sviluppo tecnologico italiano lavorando, tanto per dirne una, alla Olivetti e che successivamente ha fondato la Cynetic Technologies e la Synaptics Inc. (1986); società che ha sviluppato chip di rete neurale artificiale e che oggi è leader nelle soluzioni di interfaccia umana, avendo aperto la strada al Touchpad (1994) e al Touchscreen (1999). Oggi vive negli Stati Uniti e si occupa a tempo pieno del tema “tecnologia e consapevolezza” grazie alla sua “Federico & Elvia Faggin Foundation” anche se ammette che un paio di volte l’anno torna a far visita alla Città dell’Oro e che oggi.
Un forte contributo nell’invenzione del microprocessore porta la sua firma ma, oltre a questo, la sua vita l’ha dedicata alla tecnologia e al suo sviluppo. Nel 2015 si domandava: “sarà possibile sviluppare un computer consapevole?”, nel 2018 si potrebbe girare la domanda: “siamo noi invece consapevoli dei nostri computer?” “Nella nostra consapevolezza esiste l’idea del computer, noi abbiamo coscienza, sappiamo di esistere di avere un’esperienza, delle sensazioni, sentimenti, pensieri…in altre parole “una vita interiore”. Il computer non ce l’ha, è solo un meccanismo e, come tale, non conosce se stesso non può sapere di esiste. Può dare l’impressione di capire o di essere in grado di pensare, ad esempio qualora fosse in grado di ripetere una lista di parole, ma per lui non hanno nessun senso e nessun significato: rimarranno sempre e solo simboli. Gli input sono elaborati meccanicamente secondo delle regole, regole che però un computer può apprendere. Ci sono degli aspetti complessi che vanno al di là dell’algoritmo bruto e che vengono impugnati dagli studiosi come possibilità per usare delle reti neurali artificiali come opportunità per un domani di creare computer consapevoli. Su questo rimango molto scettico, azzardandomi ad affermare che sia impossibile che un tale scenario si delinei: un computer può imparare così come possiamo imparare meccanicamente anche noi. Infatti anche noi siamo consapevoli del fatto che se impariamo “a memoria” una certa informazione sarà ben diverso dall’apprenderla quando se ne comprende a fondo il significato. Un significato che noi gli attribuiamo. Questa differenza è fondamentale: nel computer manca la comprensione”.
Lei vive in America dova ha continuato a lavorare e a sviluppare i suoi progetti. Italia: età della pietra o avanguardia nella tecnologia? “Diciamo che è un tema molto vasto – afferma facendosi scappare un sorriso – l’Italia ha delle punte di diamante nel campo tecnologico, ma non c’è dubbio che se ripenso all’Italia quando ancora lavoravo all’Olivetti rispetto all’Italia di oggi, il Bel Paese ha perso indubbiamente moltissimo rispetto a quello che era 40-50 anni fa”.
Siamo al passo con i paesi avanzati? “L’Italia sembra indietreggiare rispetto a quello che rappresentava nel campo dell’elettronica e della meccanica. Negli anni ’60 la distanza che si frapponeva per esempio con gli Stati Uniti – che invece mantengono la loro avanguardia – era minore rispetto al gap che c’è oggi”.
Che consiglio darebbe a chi dovesse leggere la sua intervista, in generale per riportare l’Italia alla gloria? “Non c’è bisogno che sia io a dare dei consigli, i problemi che bloccano l’Italia sono noti tra cui una burocrazia troppo lenta e una tassazione troppo alta. La questione che mi sta più a cuore riguarda semmai il voler fare il voler cambiare le cose, ci vuole volontà e coraggio”.
Una domanda sorge spontanea: come ci si pone da un punto di vista etico di fronte ad un computer con un altissimo grado di apprendimento anche se non sarà mai in grado di apprendere come apprendiamo noi? “Provocatoriamente si può affermare che il problema etico si presenta per chi ha comprensione di quello che l’etica è. Quindi per noi è possibile discuterne ma non per il computer che non gode di nessuna norma etica. Fa quello per cui è programmato a fare. Il computer può avere delle regole che potremmo intendere come “imitazione” dell’etica. La “nostra” etica richiede che le differenti situazioni vengano capite. La realtà non è rigida, è molto di più”.
Alcuni fenomeni anche molto gravi, come ad esempio il cyber bullismo, gli input che arrivano dalla rete, vengono percepiti in modo assolutamente reale e hanno una forte influenza sul singolo e vediamo che la mediazione dello schermo non basta. Siamo noi forse a dover imparare a porci in un determinato modo di fronte alla tecnologia? “Dobbiamo capire dove finiscono i limiti della tecnologia e dove iniziano le nostre responsabilità. Dobbiamo trovare quel punto di equilibrio che corrisponde ad un utilizzo responsabile della tecnologia. A mio avviso, quest’ultima sta avanzando molto più velocemente rispetto alla capacità dell’uomo di saperla utilizzare. Questo rappresenta il vero fulcro della questione: la tecnologia può essere usata in maniera pericolosa. Un giorno non lontano avremo auto che si guidano da sole. Diventerà quindi lecito domandarsi: “come farà un auto a guidarsi da sola se non è consapevole di quello che sta facendo?”. Nasce quindi la consapevolezza che spontaneamente attribuiamo alla macchina un’abilità di coscienza che invece non ha. Questo accade quando un robot/marchingegno è in grado di fare qualcosa, di replicare un nostro comportamento e, in questo modo siamo naturalmente spinti ad attribuirgli queste proprietà che non esistono. C’è la tentazione di usare la macchina in maniera “finta” nel senso che possiamo pensare che sia la macchina a fare qualcosa, ma dietro le quinte è sempre l’uomo che la compie. In questo modo sarà inevitabile porci dilemmi che già per noi esseri umani risultano difficilmente risolvibili dei quali forse non abbiamo ancora una risposta univocamente corretta. Un altro fattore di cui tenere conto è l’abilità tutta umana di fare una determinata scelta rispetto ad un’altra di fronte a situazioni complesse, anche in base a quello che la società o gli altri ritengono appropriato. Sarà necessario trovare un metodo “sano” da un punto di vista giuridico per esprimere corretti giudizi e programmare di conseguenza le macchine su qualcosa che i giuristi hanno deciso e condiviso”.
Come ci comporteremo in questi anni potrebbe delineare un’epoca pre e post tecnologia. È come se stessimo ponendo le basi essenziali per il prossimo futuro… “La cosa importante è che oggi vediamo la realtà da un punto di vista così detto scientifico dove noi siamo considerati macchine. Macchina per macchina, la differenza diventa sempre più piccola mentre è legittimo sostenere che noi siamo anche macchine ma siamo anche molto di più: abbiamo cioè delle dimensioni spirituali che la macchina – sistemi non viventi – non ha e non avrà mai. Le recenti scoperte rendono quello che consideravamo pura fantascienza fino a qualche anno fa, in una possibile realtà. Questo richiede alla scienza e agli scienziati di agire con moralità, cautela e responsabilità in quanto certi scenari potrebbero risultare drammatici”.
Perché usa la parola “drammatico”? “Perché le prospettive di abuso degli sviluppi tecnologici sono tangibili. La storia non gode di un’etica “stellare” e su questo non è molto rassicurante in merito […] . Bisogna porre attenzione, e in prima linea ci sono i governi che devono essere chi usa e non chi abusa come talvolta accade: le peggiori armi sono state sviluppate grazie al supporto governativo e mai totalmente da un privato. Non voglio nemmeno dipingere un buio futuro, voglio anzi sottolineare che la tecnologia sta facendo passi da gigante, al punto tale che risulta difficile considerare quale direzione sia meglio prendere se l’uomo non avanza nella sua capacità di essere responsabile tenendo presente sempre delle conseguenze delle proprie azioni. Con una spada un uomo poteva uccidere qualche centinaio di persone, un uomo con la bomba atomica ne può uccidere milioni. La capacità di una singola persona di danneggiare gli altri è moltiplicata infinite volte, e continua a crescere. Ecco che è importante che quella che io chiamo auto-responsabilità‘: ossia comprendere il potere del singolo e questa capacità deve crescere per tutti e non solo per pochi”.
Come si immagina (o si auspica) il rapporto uomo-macchina nel futuro? “Quello che mi auspico è che ci sia la capacità di usare la tecnologia – questo ovviamente dipende dal tipo di tecnologia – in modo sensato. É importante promuovere una ri-educazione delle persone in modo trasversale nei vari ambiti. Per fare un esempio che non sia necessariamente esaustivo, ma propedeutico alla comprensione di quanto affermo, potrebbe essere l’applicazione di tasse specifiche per ogni robot che viene venduto e, quindi, per ogni posto di lavoro che viene eliminato. Queste imposte dovrebbero, almeno in un primo momento, essere utilizzate per formare la persona che ha perso il lavoro per intraprendere una nuova carriera”.
Che cos’è per lei l’innovazione? “Innovare vuol dire trovare dei metodi di fare le cose meglio di come si facevano prima, ma mi riferisco non solo i prodotti ma anche i processi. È’ dire di sì invece che dire di no, è una modalità di essere”.
Federico & Elvia Foundation: di cosa si tratta? “Si occupa proprio di capire e di studiare la natura della consapevolezza a livello scientifico e allo stesso tempo riconoscendo che la natura della consapevolezza fino a pochi anni fa era considerato un tema di cui la scienza non dovesse occuparsi; veniva considerato un epifenomeno, una proprietà emergente del cervello. Solo ora alcuni scienziati hanno compreso che invece c’è qualcosa di più, in parte perché la fisica sta facendo grandi passi avanti soprattutto nell’ambito dei computer quantici, e comincia ad approfondire maggiormente quello che erano i problemi della natura della realtà portati avanti finora dalla meccanica quantistica, ma nessuno aveva compreso il loro vero significato. Siamo di fronte quindi, ad una svolta importante, fondamentale per cambiare il modo in cui si concepisce la realtà e, cioè, molto di più di quello che pensiamo che sia. La realtà della fisica e quella della consapevolezza sono realtà molto più sofisticate rispetto a quello che sono e bisogna investirci soldi, energia, lavoro, motivazione ed è quello che faccio nel mio piccolo. È questo quello a cui mi dedico al 100%”.
C’è qualcosa che porta sempre con sé della suo Paese Natale? “Certamente: qualche bottiglia di Amarone non può mancare”.
Ilaria Ometto