Osvaldo Licini. Che un vento di follia totale mi sollevi

Fra i numerosi Angeli ribelli, che affollano l’ultima sala della mostra retrospettiva di Osvaldo Licini alla Guggenheim Collection, aperta fino al 14 gennaio 2019, c’è anche uno dei 53 dipinti, che figuravano nella personale dell’artista alla Biennale veneziana del 1958, nella quale gli veniva conferito il Gran Premio per la pittura. È l’Angelo ribelle con cuore rosso del 1953, un’opera dell’ultima stagione pittorica dell’artista marchigiano, nato a Monte Vidon Corrado nel 1894, la cui emblematicità non era sfuggita al critico Giuseppe Marchiori, che così scriveva: «L’angelo è un personaggio da giudizio finale, incombente e solenne, malgrado i segni calligrafici, che sembrano quasi un ironico commento a quell’incedere maestoso. Finalmente con l’arrivo di quest’angelo dominatore, il cuore è tornato al suo posto, dopo tante peregrinazioni snobistiche».
Ma sono soprattutto le Amalassunte a popolare i colorati cieli di Licini, le ibride creature celesti, che costituiscono l’esito finale della sua tormentata avventura pittorica, rigorosamente documentata con un centinaio di opere da Luca Massimo Barbero, curatore della mostra veneziana. Le tappe di questo percorso sono quelle ormai storicizzate dalla critica: gli studi all’Accademia di Belle Arti di Bologna (1908); i viaggi a Parigi degli anni Venti e l’amicizia con Amedeo Modigliani; i paesaggi collinari marchigiani (si vedano in mostra il Paesaggio fantastico (Il capro) del 1927 e il Paesaggio marchigiano (Il trogolo) del 1928); la conversione alla pittura aniconica e la collaborazione con la Galleria del Milione di Milano, dove espone nel 1935.
«La pittura è l’arte dei colori e delle forme» scrive in quell’occasione «ed è, contrariamente a quello che è l’architettura, un’arte irrazionale, con predominio di fantasia e immaginazione, cioè poesia».
È in questa temperie di lucida follia che nascono nella seconda metà degli anni Quaranta a Monte Vidon Corrado, ultimo rifugio dell’artista (qui morirà nel 1958, pochi mesi dopo aver ricevuto il Premio della Biennale), le prime Amalassunte: si veda in mostra l’Amalassunta con aureola rossa del 1946, ancora carica di accenti ludici ed ironici. Un’ironia che trapela anche dalla descrizione squisitamente letteraria, che ne fa l’artista in una lettera del 1950 a Giuseppe Marchiori, nella quale la definisce «luna nostra bella, garantita d’argento per l’eternità, … amica di ogni cuore un poco stanco».
Ma l’Amalassunta non è solamente l’immagine consolatoria proposta da Licini. Ci piace piuttosto immaginarla come l’esito inaspettato e affascinante di quel vento di follia totale invocato dall’artista. Forse non è azzardato affermare che Osvaldo Licini è stato il pittore più figurativo degli astrattisti e il più astrattista dei figurativi.
Aldo Andreolo