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Dalla paura del terrorismo a quella della guerra

Sono anni che si parla di paura del terrorismo. Atti violenti di minoranze spesso difficili da identificare ma comunque sempre estremiste, molto indipendenti nel loro agire, slegate dalle regole del “mondo civile” a cui apparteniamo. A questi gruppi si contrappongono gli stati che, con i loro sistemi democratici di pesi e contrappesi, hanno una discreta prevedibilità e comunque si muovono nel solco di valori condivisi e nell’interesse della maggior parte delle persone, comunque quelle per bene.

Ma oggi sembra che le cose stiano leggermente cambiando. Solo osservando le reazioni alle notizie quotidiane, pare che siano gli stati stessi, e la loro imprevedibilità, una fonte di ansia e di incertezza. E così ci si accorge che la possibilità di nuocere del terrorismo non è alla fine così elevata. Sebbene molti abbiano vissuto intensamente la paura di attentati terroristici, la reale probabilità di rimanerne vittima è sempre stata estremamente bassa, molto minore di alcune patologie trasmissibili che difficilmente incutono grande timore (e invece probabilmente dovrebbero). Ma gli stati, specialmente alcuni, quelli sì che hanno il potere di nuocere a tanti se agiscono in modo sconsiderato. E allora gli attentati cominciano ad avere meno rilevanza rispetto al movimento di gruppi navali da battaglia piuttosto che a test balistici, all’utilizzo di nuovi armamenti o a bellicose dichiarazioni pubbliche. Si tratta di un’epifania, di un momento di consapevolezza che per molti significa mettere in dubbio i costrutti stessi su cui avevano creato la loro percezione di sicurezza. E una percezione, in quanto tale, è basata su una serie di assunti che danno senso a quanto si vede e si sente. Laddove non ci sia stata un’esperienza diretta – e pochi di noi hanno visto da vicino una guerra o assistito a morti violente – ci si basa su narrazioni terze o sulla cultura condivisa per identificare preventivamente ciò che rappresenta la sicurezza e la tranquillità e ciò che è pericoloso. Adesso quello che era stato percepito come fonte di sicurezza, la democrazia occidentale, sta diventando motivo di inquietudine se non di paura. E anche la paura funziona esattamente allo stesso modo. La sua componente interna è quello che potremmo chiamare istinto di conservazione: ci impone di fuggire o combattere quando percepiamo una minaccia. Ma cosa sia una minaccia non è così scontato, dobbiamo riconoscerlo come tale. E in questa operazione non serve avere sempre esperienza diretta: tutti sappiamo che il fuoco brucia ma non tutti siamo rimasti ustionati.

Quindi cambia la cultura, si evolvono le percezioni, cambiano le paure. Ma c’è voluta una situazione effettivamente grave a seguito di quasi trent’anni – dalla caduta del muro di Berlino e la fine del mondo bipolare caratterizzato dall’esistenza di un nemico dichiarato, riconoscibile, imputabile di più o meno ogni perversione – di fiducia condivisa che il mondo stesse andando compatto nella direzione delle libertà e della condivisione e soltanto sparuti gruppi di estremisti contrastassero questa gloriosa cavalcata dell’umanità verso l’Era dell’Acquario. E in questa generalizzata euforia ottimistica abbiamo permesso che le democrazie scricchiolassero, che i piccoli interessi delle regioni o dei singoli stati diventassero sempre più rilevanti nelle nostre percezioni, che personaggi più carismatici che ricchi di contenuti e di valori diventassero punti di riferimento globale. Abbiamo dimenticato che la sicurezza e la tranquillità non sono gratis, che bisogna conquistarle giorno dopo giorno cercando di realizzare ciò che effettivamente è meglio non solo nel breve, ma anche nel lungo periodo e non solo per pochi, ma per quante più persone possibile. E dunque abbiamo creduto che il nostro vero nemico, la cosa di cui avere paura, fosse il terrorismo. E adesso potremo pensare che siano gli stati e i governanti. Ma la verità, quella da cui forse cercheremo ancora di nasconderci, è che la debolezza delle democrazie e il potere a personaggi imprevedibili non derivano da altro che dalla nostra incapacità di rinunciare a una piccola parte del nostro interesse, del nostro benessere e della nostra comodità per impegnarci a difendere i valori universali, a discutere e partecipare, a impiegare del tempo per capire e agire in una prospettiva volta a risolvere i conflitti – anche ascoltando le ragioni degli altri, dei presunti nemici – e a lottare per un mondo più giusto, non soltanto per un orticello meglio recintato. Ma forse, in un’epoca di condivisone come questa, la possibilità che ciò avvenga non è inesistente. E allora, forse, potremo essere liberi dalle paure e guardare con fiducia al futuro.

Alessandro De Carlo

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