Dalla tua parte

Se morire di lavoro è “normale”

In Italia ci sono più morti sul lavoro che omicidi. Due persone al giorno nel nostro Paese perdono la vita solo perché sono andate a lavorare e questo avviene nel più assoluto silenzio mediatico, a meno che a morire non sia una persona che non rientra nei canoni che nell’immaginario collettivo inquadrano la normale mortalità professionale.

L’esempio di Luana

I riflettori temporaneamente accesi nei giorni scorsi sulla vicenda drammatica di Luana D’Orazio dimostrano una sola cosa: che la vera notizia non è che sia morta una persona mentre faceva il suo lavoro, ma che quella persona fosse una donna, una giovanissima, una ragazza tanto bella da sognare di fare l’attrice e che fosse pure madre. Una vita, insomma, percepita come più preziosa. Di un uomo tra i 45 e i 54 anni – che è la fascia in cui ricade la maggioranza degli incidenti sul lavoro – ne avremmo saputo quello che ne sappiamo sempre: niente, perché in Italia morire di lavoro è considerato normale. Le chiamano morti bianche perché non c’è un assassino da incolpare. Nel caso delle morti professionali, la colpa finisce però per essere attribuita a chi non può più difendersi: la vittima.

Un primo pensiero

Ci sono due pensieri impronunciabili che riguardano questo tipo di decessi: il primo è fatalista e crede che gli incidenti siano cose che possono capitare. In troppi sono convinti che ci siano professioni nelle quali l’eventualità di morire lavorando faccia parte delle possibilità statistiche. È un pensiero che trova qualche conforto nei numeri: ci sono i dati Inail a dimostrare che certe professioni – soprattutto nella cantieristica – sono più rischiose di altre. Un operaio, quando esce di casa e sale su un ponteggio, sa di avere molte più probabilità di vedersi capitare un incidente di quante non ne abbia un impiegato del catasto. Ma è proprio questo a dimostrare che il destino non c’entra nulla: infatti le disposizioni di sicurezza nei cantieri sono più specifiche e rigide di quelle che si applicano negli uffici. Pensare che gli incidenti siano cose che capitano ci spinge a considerarli come fatalità ineluttabili, invece che come eventi che possono essere prevenuti e impediti.

Il secondo

Il secondo pensiero, se possibile, è ancora più feroce del primo, ed è che in contesti pericolosi sia sufficiente stare attenti. È una convinzione così diffusa che, quando accade qualcosa, il primo dubbio è che sia colpa di chi è morto, che non è stato sufficientemente accorto da evitare che quella possibilità capitasse proprio a lui o a lei. In fondo, si tende a pensare, tante persone fanno quel lavoro tutti i giorni senza che capiti niente. Se è successo a te, sarà un po’ colpa tua. Pensare queste cose ci impedisce di chiedere l’unica cosa che può davvero fermare le morti sul lavoro: che la vita umana sia considerata più importante di ogni altra cosa. Il colpevole delle morti bianche si chiama profitto. Le persone muoiono a causa dei ritmi di lavoro serrati, dell’innalzamento dell’età pensionabile (quella dove diminuiscono efficienza fisica, reattività ed equilibrio) e della mancanza di controlli sull’applicazione dei protocolli di sicurezza, che per le aziende sono un costo su cui, quando possibile, non esitare a risparmiare. Un ragionamento semplice in apparenza, ma siamo sicuri che sia così ovvio farlo in un Paese dove le perdite delle attività economiche stanno cominciando a pesare più delle morti per Covid?

Cosa fare?

Questa non è una media da paese civile. La pandemia ha certo portato un’accelerazione nella produzione e un calo di attenzione per la sicurezza. Non è un problema solo femminile, molti giovani, molti non inquadrati regolarmente come Luana di Prato, rischiano la vita. Molti sono giovanissimi. Donne e uomini. Spesso assunti con contratti non regolari in cui rischiano ancora di più. Cosa si può fare? Intensificare i controlli, ottenere più severità nei controlli e fare formazione. E’ obbligatoria in qualsiasi azienda, anche piccola, avere una commissione salute, un responsabile alla sicurezza. I datori di lavoro non sempre sono colpevoli per non aver controllato, spesso anche l’eccessiva sicurezza di chi compie quel lavoro da anni fa credere che nulla possa avvenire. E’ una questione che dobbiamo affrontare con serietà e volontà se vogliamo essere un paese civile. La pandemia non è causa di tutto. Mi viene in mente l’esempio dell’ex presidente Napolitano, il primo ad affrontare seriamente il problema. 

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