Ipertensione lieve, studio mette in discussione il trattamento farmacologico

Rubrica a cura del farmacista Lucio Zanetti
Un trattamento con farmaci anti-ipertensivi in pazienti con innalzamento pressorio lieve non è associato a un minor rischio di morte o di malattia cardiovascolare, ma è collegato a un aumento del rischio di eventi avversi. Questo, in breve, quanto riferisce uno studio pubblicato su JAMA Internal Medicine, che suggerisce ai medici di essere cauti nell’iniziare il trattamento in pazienti a basso rischio con ipertensione lieve, in particolare perché un simile approccio può interessare milioni di individui per i quali non ci sarebbe prova di beneficio, anche se l’American College of Cardiology e la American Heart Association attualmente raccomandano che si dia il via alla terapia in tutti coloro che presentano una pressione sistolica superiore a 140 mmHg o una pressione diastolica superiore a 90 mmHg.
«Nel nostro studio, che ha valutato cartelle cliniche elettroniche di 38.286 pazienti a basso rischio con ipertensione lieve, non è stata trovata prova di alcuna associazione tra esposizione al trattamento antipertensivo e mortalità o malattia cardiovascolare. Abbiamo invece riscontrato che il trattamento può essere associato a un aumentato rischio di eventi avversi, quali ipotensione, sincope e danno renale acuto» spiega James Sheppard, della University of Oxford, autore principale dello studio.
Per determinare se il trattamento anti-ipertensivo riducesse il rischio di mortalità e malattia cardiovascolare in questa popolazione di pazienti, i ricercatori hanno condotto uno studio longitudinale di coorte su dati rappresentativi della popolazione del Clinical Practice Research DataLink tra gennaio 1998 e settembre 2015. I pazienti inclusi nello studio avevano ricevuto una diagnosi di ipertensione lieve, determinata da tre letture consecutive di valori pressori sanguigni compresi tra 140 mmHg sistolica/90 mmHg diastolica e 159 mmHg sistolica/99 mmHg diastolica in un periodo di 12 mesi, ed erano stati considerati a basso rischio, cioè con nessuna storia di malattia cardiovascolare, ipertrofia ventricolare sinistra, fibrillazione atriale, diabete, malattia renale cronica o malattia cardiaca precoce.
«I dati potrebbero essere soggetti a qualche elemento confondente che non siamo riusciti a controllare, ma suggeriscono che si dovrebbe essere cauti quando si prende in considerazione il trattamento in questa popolazione» concludono i ricercatori.
Lucio Zanetti