
Autonomia che significa, più ambiti di competenze. Luca Zaia non ha dubbi: “Paroni a casa nostra”.
Il governatore leghista ha firmato il decreto del referendum consuntivo in “diretta”, collegato in rete dalla sede della Giuta regionale a Palazzo Balbi, in riva al Canal Grande, ricevendo in tempo reale qualche centinaia di migliaia di “like”, di esortazione a procedere e a non mollare. Dalla sua un ragionamento: il quesito referendario non è certo rifiutabile, chi è così, diciamo, disattento, da dire no all’ipotesi che la Regione possa gestire in proprio un lungo elenco di materie delle quali oggi si occupa lo Stato in posizione di predominio?
Ma l’entusiasmo di Zaia potrebbe cozzare con il realismo del Parlamento. Il 22 ottobre andranno alle urne anche 10 milioni di elettori della Lombardia (il governatore Roberto Maroni, anche lui della Lega, ha firmato un analogo decreto), che uniti ai 5 milioni del Veneto fanno uno zoccolo duro che si schiererà (in caso di vittoria del sì) al confine con i Palazzi romani. I quali non potranno rifiutare l’ascolto. Veneto e Lombardia sono le regioni traino dell’economia del Paese, fanno buona parte del Pil nazionale. Nessuna minaccia, ma è di certo una realtà alla quale occorre dare udienza.
Il giorno successivo alla consultazione “nulla sarà più come prima”, ha sentenziato Zaia. Vero, Veneto e Lombardia avranno messo un macroscopico paletto sulla via del federalismo. Ma la strada sarà ancora lunga. Zaia dovrà andare molto a Roma per trattare quali materia lo Stato dovrà cedere alla Regione. Stando al pensiero del governatore, però, non dovrebbero esserci molte parole da spendere. Perché, se è vero che l’articolo 116 della Costituzione prevede che “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia… possono essere attribuite ad altre Regioni (oltre alla 5 a Statuto Speciale, ndr.), con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessate” , è altrettanto vero che la stessa Costituzione all’articolo 119 prevede per “Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni… autonomia finanziaria di entrata e di spesa, nel rispetto dell’equilibrio dei relativi bilanci…”. Semplificando: nessuno può dire no a chi chiede quanto previsto nei due articoli, considerando poi che il 119 è di fatto un federalismo fiscale: ogni territorio tiene nelle proprie casse il gettito derivato dalle tasse versate dai suoi cittadini. Zaia: “Per il Veneto vuol dire 21 miliardi all’anno, il cosiddetto residuo fiscale, cioè quanto il Veneto versa nei forzieri dello Stato”. E per essere più chiari: “Quella cifra vale, per il Veneto, il 2,8% del Pil: sapete quante cose si possono fare con quei soldi invece di lasciarli immobili a Roma…”.
Il nodo cruciale è quello delle risorse finanziarie (soldi) che lo Stato dovrà accompagnare alle competenze che saranno attribuite a Veneto e Lombardia. E qui in Parlamento sarà bagarre. Per rendere compiuta la “maggiore autonomia” del Veneto, Montecitorio e Palazzo Madama dovranno approvare le leggi conseguenti. Perché, allora, un deputato toscano, laziale, campano, calabrese o siciliano dovrebbe dare il via libera alle due regioni del Nord concedendo anche i relativifinanziamenti? Qui Zaia si giocherà la partita della sua vita politica (“la madre di tutte le battaglie” l’ha definita”). Toccherà a lui costruire attorno al progetto di autonomia del Veneto un sostegno politico che va oltre i confini del centrodestra, così da garantire una maggioranza certa alle Camere (“questo non è il referendum di Zaia, ma di tutti i veneti e di tutti i lombardi”). Qualche primo segnale è arrivato dal Partito Democratico. Quello nazionale nicchia, anzi ha cercato con tutti i mezzi di sminuire la portata del referendum (Renzi in testa, proprio lui che, il 4 dicembre scorso, si è visto bocciare la riforma della Costituzione con la quale voleva anche drasticamente ridurre l’autonomia delle Regioni). Qualche esponente dem veneto,invece, non ha nascosto l’interesse per l’iniziativa di Zaia, spingendosi anche a costituire comitati del sì ai quali hanno risposto altri compagni di partito con i comitati del no. Tra i primi, Simonetta Rubinato e Stefano Fracasso il quale, però, ha “consigliato” Zaia di non inseguire il modello del Trentino Alto Adige, regione autonoma che si trattiene oltre il 90% del gettito fiscale. Ma il Pd continua a predicare bene, ma a razzolare male. Non sono molto lontani i tempi in cui il partito nazionale basava, con tanto di Statuto, il proprio rilancio sul federalismo, sia interno a sé stesso che istituzionale. Poi entrambe le strada si sono perse nel sempre vivo “centralismo democratico” di vecchia data. E il partito si ritrova ancora a leccarsi le ferite dopo la batosta delle elezioni regionali del 2015 e del referendum di dicembre. Senza una guida, né nazionale né regionale. Ancora a caccia di una identità, di una linea politico-amministrativa da proporre agli elettori. E adesso, trova a inseguire la Lega di Zaia nella corsa all’autonomia del Veneto.